G. Mahler nella vita avrebbe voluto fare il martire, e si può dire che artisticamente lo è stato. Una musica perennemente tormentata, inframezzata solo da parentesi grottesche. Rari momenti idilliaci, ed alcuni squarci celestiali. Ma quando parla esplicitamente di paradiso, come nella 4a, lo fa in chiave ironica ed infantile. O è un sogno. Di sacro c’è la musica e di essa Mahler è certamente uno dei più grandi martiri. Oltre esserne stato uno dei più ortodossi sacerdoti. Sacri sono i tormenti e le speranze dell’Uomo. Piaghe e preghiere scolpite sul pentagramma. Non è certamente la sua una musica “facile”. Anche dopo anni di frequentazioni mahleriane quando ci si siede in platea ed il concerto comincia si deve ricominciare tutto da capo. Dimenticare studi, ascolti. Spartiti, biografie, critiche. Ci si deve abbandonare totalmente alle note. Mahler lo si “deve” amare. Avere la massima “fede” possibile. Diversamente si starà sempre al di qua della sua musica e dei suoi segni. Ma bisogna essere pronti e disposti a soffrire i propri mali e quelli del mondo intero. Bisogna avere il coraggio di sentire in note e vivere fino in fondo la follia dei propri sogni, di tutto ciò in cui l’umanità ha riversato le proprie speranze di vita. Con i suoi tragici crolli. Per poi rialzarsi ed avere ancora, di nuovo, il coraggio di guardare il senso del cielo. Di sinfonia in sinfonia, di canto in canto. Fino alle soglie del silenzio. Dove le note, le melodie, si rarefanno su un pentagramma sempre più vuoto. Le armonie, le dissonanze, si decompongono nel Nulla di quelle che oltre a essere pagine di una partitura sono gli ultimi respiri, gli ultimi segni, di uno dei compositori più importanti di tutti i tempi. Per la sua musica e per il suo cuore infinito…